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Manuel Zoia Gallery
Via Maroncelli ,7 – Milano

Luce e orientamenti prospettici – Settembre 2022
di Cristina Muccioli

 

Maria Cristina Vimercati sembra rallentare sino a fermarsi, di tanto in tanto. Sembra, perché in realtà sta “dormendo sonni che contengono alba”, per dirlo con i versi di Chandra Candiani, sta prendendo la rincorsa per tornare, come in questo settembre 2022 alla Galleria ManuelZoia di Milano, con una collezione di dipinti tecnica mista: una meditata densità contenutistica, e una gioia realizzativa che si percepisce anche guardandoli distrattamente.

Fedelissima alla pittura a olio, Vimercati si prende i suoi spazi. Li vuole ampi, ne omaggia ogni millimetro, mette in scena fiabe su tela, distese bianco neve su cui cammina col pennello e in punta di matita, stanze bidimensionali dei suoi tesori in foglia d’oro, di macchie vegetali verdissime, di segni cromatici di antico sapore veneziano e rinascimentale che si accendono di rossi – sono tanti, dal fragola al porpora – e di blu – sono infiniti, dall’oltremare al turchese -.

Ci vuole audacia a provare gioia, generosità a parteciparne al mondo, quando una pandemia tendente all’infinito con picchi di tragedia, le guerre, la crisi economica e climatica fiaccano il principio attivo della resilienza: la speranza.

Vimercati non è ingenua né sbrigativa: dipinge temporali e addensamenti tetri, incombenti e minacciosi di scrosci, ma assegna loro una circoscrizione emotiva da cui non possono trasgredire. Di guardia, stanno volti Cinquecenteschi di giovani pieni di forza, di bellezza, di giovinezza di spirito che allaga due occhi grandi grandi, color topazio, nei quali cercare riparo.

Sono occhi abitabili, che non spiano ma accolgono, reggono e proteggono noi come una preghiera laica, incastonati in un viso elegante dai lucenti capelli neri. E poi ci sono i bimbi, curiosi per vocazione, giocosi per missione e fantasia, una massaia vestita di passato color prugna, la gonna lunga e la pettorina, un turbante alla van Eyck, che ha cucinato il pollo della domenica e si dirige a una tavola chiacchierina con un bellissimo piatto da portata. Risponde alla nostalgia per il rito. Richiama alla felicità fragrante del pranzo, della convivialità, di chi non mangia né si nutre ma pranza, e cena. Dove?

Cercare, cercare sempre nella mappa immaginifica di Vimercati. Troverete ‘casine’, come le chiama lei, meravigliosamente disegnate con la grafite, a tre piani e con il tetto spiovente, affacciati su giardini ricamati dai fiori e dagli orti, e piccole chiese vessillo con colonne ioniche e arco a tutto sesto all’ingresso: le nostre origini culturali nell’armonia architettonica, Roma e Atene che fanno di un luogo sacro, anche minuto, un tempio. A occidente (noi diremmo a sinistra) Vimercati trapunta il suo oriente, il suo Istambul con le cupole a cipolla, cittadino onorario della Serenissima, vestito a festa di colori saturi e ilari.

È la toponomastica della pace, dell’accoglienza, di un bisogno di rifugio e di serenità intercettati ed esauditi come un desiderio della psiche, quello tabù: perché ci si chiede di essere sempre guerriere e guerrieri armati fino ai denti di aggressività, istinto a prevaricare alla ricerca del titolo di ‘vincente’, ossessionati dall’infamia del ‘perdente’, perché coltiviamo la guerra ogni giorno senza dichiararla anche nell’atrio di casa, nelle piazze e negli uffici. Un altro giovane dai calzari di pastore, la testa e le spalle imporporite di nobiltà d’animo, fa strada con un raffinato candelabro. Porta luce, fiero ma mai arrogante, prendendosi cura di tenere accesa la piccola, preziosa fiamma. Un novello Prometeo, una promessa fanciulla già mantenuta.

Angeli senza ali tutti i suoi animali, apparizioni naturalistiche e fantastiche al contempo, emersi dalla placenta luminosa del bianco, il loro habitat. Sono affiorati a tutela. Grandi bovini anatomicamente perfetti, eco lontana e maestosa delle iscrizioni rupestri, segnatempo della lentezza, della ruminatio medievale, emblema di abbondanza e stabilità, contraltare di una luminosa costellazione del cielo in cui sono iscritti i nati in primavera; cervi guizzanti dal palco orgoglioso come una corona, di cui si vede anche l’occhio allungato, allenato dal suo essere preda ma anche sovrano sapiente dei boschi.

C’è tutto in questi due animali, la domesticità e la selvatichezza, l’allusione al borgo e alle pratiche stanziali accanto all’essere forestieri (parola che nasce da ‘foresta’) di tempi nuovi, inediti, ai quali evolutivamente e culturalmente mai siamo nati pronti, scordandoci però della prontezza che urge nel reagire, della leggerezza agile che aiuta nella selva sconosciuta.

In questa assenza voluta di gabbia prospettica artificiale fiorentina, Vimercati convoca la pittura della Firenze di Botticelli, offre cavoli e verdura invece di fiori cogliendo, di che ci limitiamo a mangiare, la meraviglia formale.

La sua prospettiva, come già evocato dal titolo, è interiore e trasposta su tela, dove l’invisibile si fa visibile. La direzione è quella della rinascita, il punto di fuga è la nostra più autentica umanità: “gli uomini”, scriveva Hannah Arendt, “non sono nati per morire ma per incominciare”.

Ognuno di noi è cominciamento. Ogni nascita è un’unicità assoluta, un inedito che mai è stato e mai più sarà. Tutti periamo, ma siamo gli unici a saper rinascere a nuova vita, in vita. Vimercati lo dice con la pittura. Queste pitture vanno ascoltate con gli occhi.

Cristina Muccioli

 

La camera  bianca- Parolini Lab
Via Jan 10,Milano
L’emozione della luce, 2020
di Roberto MuttiForse è vero che per dialogare occorre essere, almeno un poco, diversi. E’ bello pensare, infatti, a quei lunghi e spesso sinuosi percorsi compiuti partendo da lontano per arrivare a un punto – quel punto – in cui le esperienze si fondono incanalandosi in un unico alveo. Maria Cristina Vimercati e Isabella Greppi partono fotograficamente parlando da esperienze assai diverse: il mondo della moda il reportage e la ritrattistica hanno indotto la prima a un lavoro intensamente dinamico nel catturare l’istantanea, restituendo il racconto. Quello dell’’architettura ha invece spinto la seconda a una riflessione inevitabilmente pacata incentrata sui volumi e gli spazi silenziosi.Tuttavia quando entrambe hanno scoperto l’India è stata l’emozione della luce a prevalere e ad avvicinarle sia pure, ancora una volta, in modo inusuale perché un viaggio assieme in quel luogo non sono mai riuscite a farlo. Ognuna però da quei luoghi ha portato frammenti, immagini, sensazioni, visioni, idee che, forse sorprendentemente, pur essendo molto personali, si sposavano perfettamente con quelle dell’altra: il punto di arrivo non poteva che essere una mostra, uno spazio condiviso che lo spettatore può in un primo momento visitare in modo tradizionale percorrendo cioè con lo sguardo le pareti come fossero la pagine di un libro illustrato.Sarà solo un secondo e più intrigante approccio a fargli immaginare rimandi più curiosi, fili tenaci che attraversano la sala per unire immagini lontane solo fisicamente fra di loro. Quell’elegantissimo elefante inquadrato dalle colonne di un tempio trasmette il senso di una teatralità antica che si ritrova nell’austera presenza di antiche grotte scolpite, la flessuosità del passo di due giovani donne che portano dei vasi in equilibrio sulla testa rimanda alla maestosità di un paesaggio di montagna, il silenzio rispettoso che avvolge la vita dei monasteri dove tutto sembra immutabile si contrappone al dittico che racconta la vicenda di un bambino che lascia melanconico la sua famiglia per salire su un affollato pullman che lo porterà lontano chissà dove. Realizzate in un perfetto bianconero, queste fotografie alludono ma non dicono, sottolineano la bellezza ma non se ne compiacciono, mettono in luce lo stile sempre garbato delle loro autrici ma si rivolgono a noi in un incrocio di visioni che ci coinvolge. 

Dal libro di:

Cristina Muccioli, L’estetica del vero –Prospero Saggi- 2018

Maria Cristina Vimercati è fotografa e pittrice. Con le sue suggestioni su pellicola e su tela, mostra eloquentemente quanto un’epoca e una corrente artistica non possano essere inscatolati in lassi temporali precisi, ma si attivino piuttosto come dispositivi di interpretazione, creando così effetti di reale, esperienze di realtà cui altrimenti i non specialisti non avrebbero accesso.
Così l’astrattismo Novecentesco di Kandinsky, che troppo speditamente viene semplificato nella deliberata volonta’ di astrarre e di prendere le distanze dal figurativismo realistico, diventa una propensione all’intuire, una dedizione metodica e una ricerca attiva nel rintracciare forme di vita più intime, più riposte di quelle ben visibili, facilmente classificabili in base mero uso che ne facciamo.
L’astrattismo ha a che vedere coi sensi, non li disprezza e non li rimuove, anzi li affina sino a sporcarli di immaginazione. Come Kandinsky anche Vimercati, in una sensorialità eretica e poco praticata, si e ci educa alla capacità di sostare nelle zone d’ombra, nell’inospitale, nel fosco, per trovare e far rilucere particolari minuti che da soli cambiano segno al fango, da negativo a positivo; da melma insignificante da cui tenersi lontani a mosto primordiale in cui morte e vita sono indivise, cospiranti. Nel FANGO denso acquitrinoso, paludoso, e oscuro, la pittrice trova reattività vitalistica rosso acceso, alzate di braccia e capitomboli di chi non si arrende al trascinamento, all’intorpidamento.
La lunghezza di gambe e braccia di uno dei personaggi è pressochè uguale, perche’ il loro sforzo è pari nel galleggiare, nel nuotare, nel camminare, nell’incespicare per sopravvivere. Quattro peduncoli che ricordano quelli delle amebe agitate nell’acqua stagnante. Dritto ed esultante, le braccia al cielo in un Hurrah di vittoria, l’omino in cima alla composizione esorta alla resistenza il suo fratello di fango, del caos che attenta alla vita e che, insieme, ne permette la possibilità.

pettorina, un turbante alla van Eyck, che ha cucinato il pollo della domenica e si dirige a una tavola chiacchierina con un bellissimo piatto da portata. Risponde alla nostalgia per il rito. Richiama alla felicità fragrante del pranzo, della convivialità, di chi non mangia né si nutre ma pranza, e cena. Dove?

Cercare, cercare sempre nella mappa immaginifica di Vimercati. Troverete ‘casine’, come le chiama lei, meravigliosamente disegnate con la grafite, a tre piani e con il tetto spiovente, affacciati su giardini ricamati dai fiori e dagli orti, e piccole chiese vessillo con colonne ioniche e arco a tutto sesto all’ingresso: le nostre origini culturali nell’armonia architettonica, Roma e Atene che fanno di un luogo sacro, anche minuto, un tempio. A occidente (noi diremmo a sinistra) Vimercati trapunta il suo oriente, il suo Istambul con le cupole a cipolla, cittadino onorario della Serenissima, vestito a festa di colori saturi e ilari.

È la toponomastica della pace, dell’accoglienza, di un bisogno di rifugio e di serenità intercettati ed esauditi come un desiderio della psiche, quello tabù: perché ci si chiede di essere sempre guerriere e guerrieri armati fino ai denti di aggressività, istinto a prevaricare alla ricerca del titolo di ‘vincente’, ossessionati dall’infamia del ‘perdente’, perché coltiviamo la guerra ogni giorno senza dichiararla anche nell’atrio di casa, nelle piazze e negli uffici. Un altro giovane dai calzari di pastore, la testa e le spalle imporporite di nobiltà d’animo, fa strada con un raffinato candelabro. Porta luce, fiero ma mai arrogante, prendendosi cura di tenere accesa la piccola, preziosa fiamma. Un novello Prometeo, una promessa fanciulla già mantenuta.

Angeli senza ali tutti i suoi animali, apparizioni naturalistiche e fantastiche al contempo, emersi dalla placenta luminosa del bianco, il loro habitat. Sono affiorati a tutela. Grandi bovini anatomicamente perfetti, eco lontana e maestosa delle iscrizioni rupestri, segnatempo della lentezza, della ruminatio medievale, emblema di abbondanza e stabilità, contraltare di una luminosa costellazione del cielo in cui sono iscritti i nati in primavera; cervi guizzanti dal palco orgoglioso come una corona, di cui si vede anche l’occhio allungato, allenato dal suo essere preda ma anche sovrano sapiente dei boschi.

C’è tutto in questi due animali, la domesticità e la selvatichezza, l’allusione al borgo e alle pratiche stanziali accanto all’essere forestieri (parola che nasce da ‘foresta’) di tempi nuovi, inediti, ai quali evolutivamente e culturalmente mai siamo nati pronti, scordandoci però della prontezza che urge nel reagire, della leggerezza agile che aiuta nella selva sconosciuta.

In questa assenza voluta di gabbia prospettica artificiale fiorentina, Vimercati convoca la pittura della Firenze di Botticelli, offre cavoli e verdura invece di fiori cogliendo, di che ci limitiamo a mangiare, la meraviglia formale.

La sua prospettiva, come già evocato dal titolo, è interiore e trasposta su tela, dove l’invisibile si fa visibile. La direzione è quella della rinascita, il punto di fuga è la nostra più autentica umanità: “gli uomini”, scriveva Hannah Arendt, “non sono nati per morire ma per incominciare”.

Ognuno di noi è cominciamento. Ogni nascita è un’unicità assoluta, un inedito che mai è stato e mai più sarà. Tutti periamo, ma siamo gli unici a saper rinascere a nuova vita, in vita. Vimercati lo dice con la pittura. Queste pitture vanno ascoltate con gli occhi.

 

MARIA CRISTINA VIMERCATI
Studio Dimore, Via Solferino 11, Milano
di Nives Maria Ciardi – 2010

Per Maria Cristina Vimercati il mondo è un bosco, percorribile alzando gli occhi al cielo e sostando di tanto in tanto nella considerazione dei dettagli e di quel che accade. Il disegno e la pittura, che lo contiene, compongono la trama. Il particolare sta con il tutto come nella vita. I Monaci in cammino avanzano di traverso con il guizzo di un movimento che richiama nello spostamento di sbieco “i detti dei Padri del deserto”.
Ci vogliono secoli perché si formi un bosco. Ci vuole anche l’opera dell’uomo per contenerne la spinta diffusiva purché sappia tenere a freno la propria. Il diffondersi delle piante fa sparire la varietà di alberi e arbusti. La boscaglia favorisce incendi.
Tra i rami di un albero dipinto dal basso dal punto di vista di una radura, un direttore d’orchestra tiene le fila di un concertino senza musicanti per un pubblico attento tra le fronde. Nel titolo, la luce accecante viene dal mare. Una figura in acqua, vista da sotto, come la chiglia di una nave, si estende in Protected poco sopra una fila di animali disegnati in basso alla base della tela. Un cetaceo nella tempesta, in Allarming, sta a ridosso di una nave. Entrambi veicoli di Giona. Un profeta in fuga restituito da “un grande pesce” all’asciutto.
Ricordo un lavoro di Maria Cristina Vimercati di qualche anno fa. Un bambino invoca aiuto con la bocca aperta a megafono. I soccorsi piovono da un aereo in un cielo rosso e azzurro. I nuclei di intensità tuttora persistono nei suoi lavori senza esaurirsi tuttavia nella facilità della catastrofe.

 

MARIA CRISTINA VIMERCATI
Studio Dimore, Via Solferino 11, Milano

A POLLICI UNITI: LA CORNICE DELLE MANI
di Cristina Muccioli – 2010

I quadri di Maria Cristina Vimercati sono le immagini della vita della sua anima.
Una storia anacronistica quindi, in cui si miscelano il passato dei ricordi e il presente della loro rappresentazione, del loro ricollocamento in paesaggi che da interiori affiorano a un’inedita superficie: quella della tela.
Sono una rassegna sublimata dalla technè artistica della sua intensissima, febbrile architettura emotiva.
In essa serenità, tristezza, dolore, nostalgia, attesa, meraviglia estatica e paura, sollievo e inquietudine, gaiezza, metamorfosi e punti fermi si intramano a tal punto armonico da suggerire la qualità meno esplorata delle emozioni: la loro contiguità con la razionalità.
Dare forma, corpo e colore alle emozioni è da un lato prenderne consapevolmente le distanze, dall’altro riconoscerle, sentirle ancora, pensarle.
Attraverso una contemplazione empatica, quell’ Einfuehlung tedesca che deriva da fuehlen (sentire) e svelle la radice etimologica del pathos, del patire e del soffrire, avvertiamo quanto ciò che è rappresentato possa riguardarci.
Le emozioni infatti, nella loro estesa quanto sfuggente fenomenologia e in diverso grado di intensità, hanno a che fare con ciascuno di noi: fino in fondo.
Questo tipo di sguardo in ascolto, si avvale di due momenti: quello del lontano e quello del vicino.
E’ da lontano, da una distanza sufficiente e necessaria che percepiamo l’interezza dell’opera -anche più grande- in tutta la sua complessa sintassi compositiva, nella suo addensarsi e sfilacciarsi di colori, e soprattutto in tutta la sua propria luce che orienta lo sviluppo figurale, scandisce e fa dialogare spazialmente le campiture: territori liquidi catafratti ed esplosi, inserti grumosi che l’artista chiama “zone di disturbo”, cieli amniotici, nuvoloni zuppi di pioggia, prati e acque in cui fluttua vorticando la ricerca identitaria.
Da vicino le sorprese e gli indizi interpretativi -perché non c’è nulla da spiegare in questi quadri, ma molto da dire e da dirci-, tendono all’infinito.
L’artista, che è anche fotografa con un passato da scenografa sempre presente, ci educa alla percezione spontaneamente con un suo gesto abituale e particolare: distende le dita, fa combaciare i pollici e crea così la sua inquadratura su una parte dell’opera.
Una parte così compiuta in sé, così netta, che potrebbe essere estrapolata e avere un suo senso compiuto: ma sarebbe un altro senso, al cui interno cercheremmo altri focus.
La stessa nozione di parte infatti, non potrebbe sussistere se non in stretta relazione con il tutto cui appartiene.
Il gesto pittorico di Vimercati e il suo fotografare, sono modi differenti, arti differenti, per fermare tutto quello che fluisce ineluttabilmente, a volte in un turbinio tempestoso, e per conservarlo producendo memoria attiva.
In questo è veloce, rapidissimo nel ghermire baluginii attimali di ricordi e impressioni, ma anche molto sicuro, tipico di chi gestisce bene “il mestiere” per padronanza così sedimentata delle regole espressive dell’accademia più rigorosa, da poterle infrangere.
Ad ogni congiuntura di pollici scontorna un particolare che rimette in questione l’intera visione del quadro, impedendoci non di continuare a immergerci nella completezza, ma di postularla dogmaticamente, di assegnarle il cartellino classificatorio.
Se incornicia con le mani un minuto disegno a grafite per esempio, incrina senza rimedio l’idea che sia una colorista.
Gli squarci di bianchi –poiché non ce n’è uno soltanto, ma una vera policromia glauca- ora abbacinanti ora opacizzati, ora morbidi e impenetrabili ora riflettenti e saettanti; i fiori madidi di pigmento acceso, le chiome degli alberi fruscianti che in Tramonto in campagna chiamano verde ovunque, anche sul sole, sottraggono l’autrice dal sospetto di figurativismo.
La quidditas di queste opere risiede sempre nella luce, una luce drammatica (nel senso di dinamica) e cangiante insieme con noi di attimo in attimo, in ascolto verso quella naturale. Anche l’atmosfera e il suo pulviscolo ci si manifestano, prima da lontano, poi da vicino. Argentata, assolata e luminosa, lattiginosa e opaca, rarefatta e limpida, malcerta come si manifesta nella realtà.
Nella parte inferiore del quadro, a margine, in una piccola nicchia scavata al centro della scena, uno sguardo paziente potrà soffermarsi “a mano” sui dettagli realizzati in grafite. Sono spesso decisivi per la titolazione dell’opera, eppure sono di una delicatezza e di una fragilità che diventa monito: tutto ciò che è disegnato a matita può essere cancellato, pronto a essere risucchiato nel vortice cosmico dell’esistenza in una nuova metamorfosi: la crescita, nuove relazioni, altri io e altri tu. Al contempo sono di un’esattezza compositiva da far trasalire.. quel che è meglio definito nella sua morfologia, coincide con quello che di più transeunte o cagionevole ci denota. E’ l’ipoteca della finitezza umana cui è sottoposta ogni bellezza, ogni apparente perfezione.
Ma bisogna avvicinarsi molto per vederli, mischiando il nostro fiato con quello del quadro, e a volte accovacciarsi.
In Protected una fila processionaria di bimbi e gli animali che amano ricambiati come l’elefantino, il cavalluccio marino, si dirige in salvo verso un tunnel, o un’arca, di sicuro un rifugio. Sopra di loro folate furiose di vento, minacce temporalesche, pericoli smaglianti in dissolvenza che ognuno può ridefinire per sé, e una colatura vermiglia laterale, come la tela stessa sanguinasse. Senza chiasso, ma nemmeno mimetizzata.
Nelle Nozze di Cana due camerieri tutto zelo fanno letteralmente ingresso nella scena di lato; portano vassoi generosi di pani. In un’altra sezione si erge maestoso un breve colonnato ionico, un’arcata a tutto sesto da cui esce un urlo lacerante. In basso invece, nuovamente farcita dei colori della festa, una torta nuziale che sa di fragola. Ricchi tendaggi imperlinati di preziose passamanerie aprono dall’alto la scena, in cui fa irruzione la forza travolgente del destino: l’allegria della festa, l’importanza “ionica” dell’evento, i dolori più spaventosi che avvengono proprio dentro la dimora di famiglia, la possibilità di strappare un pezzo di tendaggio e usarlo come tappeto volante per cercare, a pollici uniti, altri luoghi del cuore, dove vivere in bianco, sposati al coraggio di vivere: Harry up! There’s a party.
Sotto i ventagli vivaci di due gonne che scherzano inebriate di toni aranciati, un bustier nero tizianesco sciancrato maliziosamente in vita, con l’epidermide candida e serica di un decolletè scontornato delicatamente dalla base cangiante, en plein lumiere, del quadro che si affretta gioioso a vestirsi a festa. Una festa che comincia prima del suo inizio, durante la preparazione, la scelta di un abito: inserto e vessillo di gioia e sano, dichiarato, piacere di sé. Quest’allegria croccante di tinte calde e accese è significativamente presente anche in Such a mass, dove campeggia una maschera di foggia veneziana madida di nero, con lapilli color minio, due ventricoli d’occhi fatti per assorbire immagini più che per lanciare sguardi.
In forma certo più allusa che dichiarata, madame la morte fa la sua comparsa. E Vimercati la fa accomodare, la costringe a un balzo prospettico in avanti lasciandole il posto da protagonista della scena. La rende visibile, le dà un volto visionario e immaginifico, con il quale però, molto diversamente che con un fantasma, un destino inesorabilmente comune, il nostro decisivo e paradossale risvolto della medaglia, è possibile vedere: con quella maschera la morte fa cadere la sua, fatta di angoscia e di ignoto, di fede o di niente assoluto. C’è ma non può dilagare, invadere tutto lo spazio vitale da cui essa stessa trae senso. Il bianco più impetuoso e forsennato la cinge d’assedio, la mette in luce, le assegna uno spazio che è una parte.
L’eternità è un brivido di luci bianche, e corolle in crinolina di peonie che sulla tela non appassiscono mai. Così come la fotografia è cromosomicamente costituita di due sottilissime parti inscindibili (la pellicola e il suo supporto) la morte simboleggiata e disvelata è incarnata imprescindibilmente nella vita, non solo. Ne è vinta.

MARIA CRISTINA VIMERCATI
LUCE CREPUSCOLARE E ONDULATORIA
Studio Dimore, Via Solferino 11, Milano

Tutto Milano / La Repubblica – Dicembre 2012
di Roberto Mutti

Inaugurazione lunedi ore17, Martedi e mercoledi, 11-20:30- Tre giorni per conoscere un’autrice che si esprime con i colori ad olio con cui realizza tele di tono astratto dai toni brillanti, che si stemperano in atmosfere candide. In realta’ Vimercati e’ una fotografa e sta ai visitatori scoprire il legame tra le due forme espressive.


AN ANECDOTE OF SPIRIT

di Andrea Jacchia – 2013
Vivaio Sorelle Riva, Milano

Maria Cristina Vimercati è pittrice, fotografa, e astrologa. In lei queste tre forme sono, insieme, arti e mestieri. Ha 53 anni, è milanese, e cosmopolita, cioè “cittadina dell’universo”. Abitando il cosmo – quando studia e scrive di astrologia – Maria Cristina ha uno sguardo privilegiato, e naturalmente personale, sul mondo. La sua pittura potrebbe essere parafrasata con una definizione di Mark Rothko: “an anecdote of spirit”. Quando fotografa – in particolare nei ritratti, veri schizzi, istantanei – potrebbe dire (sempre insieme a Rothko) “cerco di esprimere quello che sono, e quello che non sono”. E quindi, quello che i soggetti, le persone fotografate, sono e non sono.
Nello studio e nel perfezionamento dell’astrologia, Maria Cristina ha avuto due maestri, o meglio due fonti primarie: sua zia Lisa Morpurgo, e Ugo Mazzola. Quando dipinge e fotografa (da oltre trent’anni) deve tutto, e non semplicemente, a se stessa.


ONNIVORA PRESENZA
GALLERIA D’ARTE CONTEMPORANEA STATUTO 13, MILANO

di Massimiliano Bisazza – Settembre 2014

Maria Cristina Vimercati è fotografa, scenografa, regista e pittrice. Un’artista a 360° che ho avuto il piacere di conoscere sia sotto il profilo artistico che umano avendo così l’opportunità di comprendere la sua natura creativa che è senza dubbio un ricco connubio di tutte le specialità artistiche nelle quali si cimenta da molto tempo.
Le sue tele sono territori introspettivi raccontati poeticamente con colori ad olio, pigmenti, terre, stucchi, stesi anche in modo molto materico. Tutto emerge dal profondo della sua emozionalità e del suo percepire il mondo circostante sia nel reale che nell’onirico/sensoriale. Proprio come si trattasse in un’ ”onnivora presenza” che si ciba di tutto: di anima, amore, emozioni, ragione e respiro ma dove l’intento ultimo resta sempre quello di condividere una sana e gioiosa speranza. Anche di fronte al buio temporalesco più intenso del cielo o dell’anima.